Il libro di Grégoire Chamayou, giovane filosofo classe 1976, ci apre una finestra interessante e per certi versi inquietante sull’evoluzione della guerra e delle sue forme. I droni, questi famosi sconosciuti, vengono nel testo presentati e soprattutto viene raccontato in che modo stanno cambiando il modo di concepire e fare la guerra. Lo scopo è quello di costruire, come suggerisce il titolo, una vera e propria teoria ed effettivamente leggendo il testo l’obiettivo non sembra esagerato. La tecnologia permette infatti oggi l’utilizzo massiccio di una nuova arma, il drone, capace di uccidere senza mettere in pericolo chi la utilizza, capace di rendere la guerra un “lavoro a distanza”, un tele-lavoro de localizzabile e gestibile a turni. Impressiona sentire il racconto della ordinaria giornata di un addetto alla guerra dei droni, che copre il proprio turno, va in pausa pranzo, torna a casa alla sera all’orario prestabilito. Se questa è la guerra nel tempo dei droni allora davvero non è esagerato parlare di una nuova teoria della violenza e della guerra.
Quello di Chamayou non è un trattato morale sulla guerra, non vuole fare della morale, giudicare la guerra, ma “dimostrare il meccanismo della violenza. Andare a vedere le armi e mostrare le loro peculiarità”. Chamayou ci aiuta a capire che, come ogni forma assunta dalla guerra nella Storia, anche la guerra dei droni per essere efficace richiede una mentalità, una cultura, una politica che la legittimi, la normalizzi, la ritenga una forma di progresso e ne accetti tutte le conseguenze militari innanzitutto, ma poi anche politiche e sociali: “non importa tanto cogliere il funzionamento tecnico dello strumento in sé, ma piuttosto di determinare, a partire dalle sue caratteristiche proprie, quali possano esserne le conseguenze applicative per l’azione di cui si fa strumento”.
La tecnologia può essere un aiuto in tal senso. Pur con le necessarie riserve verso un approccio che rischia di aumentare ulteriormente il tempo, spesso già consistente, di esposizione ai video schermi, il metodo della flipped classroom propone di utilizzare le piattaforme WEB per caricare video didattici di spiegazione delle lezioni e in tal modo liberare il tempo scuola in favore del confronto, della discussione, della problematizzazione che apre ad una ricerca attiva e non banale del sapere. In questo approccio l’insegnante non è più il detentore del sapere ma il regista dell’impresa formativa, colui che organizza le condizioni e gli strumenti che permettono di imparare, a vantaggio di studenti sempre più autonomi e si spera responsabili della propria formazione.
Il nemico, nella guerra dei droni, non lo vedo nella sua forma umana ma piuttosto come traccia su uno schermo; la sua de-umanizzazione, il processo attraverso il quale da sempre la guerra è resa possibile, è ancora più facile, veloce, semplice. La differenza tra un’azione reale in Afghanistan e quella virtuale di un war game che compare su di un video schermo si fa sottile, si scoglie. Come diceva Gandhi tra i mezzi e i fini c’è una relazione imprescindibile: se cambiano i mezzi della guerra non possono non cambiare le finalità, i confini di legittimazione della stessa. E non possono cambiare le menti e i cuori delle persone che ne sono, a diversi livelli, coinvolte. Una mutazione antropologica del militare, ma anche della sua famiglia, della sua comunità, della società … di noi tutti, prima o poi. Chamayou infatti va oltre lo stretto ambito militare e ci fa capire come la teoria del drone possa rappresentare una nuova teoria politica e di controllo sociale: il drone si propone come strumento
efficace di sorveglianza sociale a servizio di un mondo sempre più ossessionato dallo spionaggio e dall’archiviazione ossessiva, in nome della sicurezza, di tonnellate di dati.
In sintesi il drone non è solo uno strumento tecnologico per la guerra contemporanea, ma piuttosto una più generale tecnica di guerra che può diventare un vero e proprio dispositivo a servizio di un nuovo paradigma centrato sul controllo e sull’accentramento tecnologico del potere.
Prima ce ne accorgiamo e forse meglio è.
Fabrizio Lertora
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