Professor Pontara, che cosa
rimane attuale nella riflessione e nella prassi
gandhiana, a sessant’anni dalla morte?
Gli elementi che a mio vedere sono tutt’ora
fondamentali hanno tutti a che fare con la sua
concezione pratica della nonviolenza. La sua
concezione della nonviolenza va molto oltre la
visione tradizionale della nonviolenza
occidentale, limitata spesso unicamente al
rifiuto delle armi o al pacifismo. In Gandhi la
nonviolenza è rifiuto non solo della violenza
armata, ma è anche rifiuto di una violenza
strutturale connaturata al capitalismo e
all’industrialismo sfrenato tipici del mondo
attuale, e di tutte le forme di oppressione, in
una parola è rifiuto della barbarie. E anche
quella che oggi chiameremmo violenza culturale è
rifiutata dalla nonviolenza gandhiana, che si
oppone alla violenza esercitata dai media
quando, invece di dare informazioni, manipolano
le coscienze.
Bisogna stare attenti però a non vedere Gandhi
unicamente come un uomo che rifiuta tutto questo
punto e basta, perché la nonviolenza si
costituisce come una visione del mondo e una
prassi fatta di proposte positive. La sua
modalità di lotta satyagraha non è semplicemente
uno dei tanti metodi di lotta non armata, è una
strategia conduzione e trasformazione dei
conflitti con metodi costruttivi e non violenti
al fine di realizzare una società sarvodaya o
del benessere di tutti. E alla violenza
culturale oppone la sua concezione educativa
fondata sull’indipendenza della mente e
dell’uomo, affermando la necessità di mettere
sotto controllo democratico i media a causa
dello spaventoso potere che possono esercitare.
E questo è molto importante anche per l’oggi.
Recentemente Arundhati Roy, analizzando la
situazione dell’India, ha preso una posizione
che ha in parte stupito chi ha conosciuto la
critica alla guerra espressa nel libro Guerra è
pace, sostenendo che per molti aspetti oggi si
deve fare i conti con il fallimento dei
tentativi nonviolenti di opporsi ai progetti
violenti delle multinazionali nel suo Paese.
Siamo davvero in una situazione nella quale il
militarismo e il capitalismo selvaggio hanno
fatto fallire il modello nonviolento?
Non ho letto quello che Roy ha recentemente
scritto sulla situazione in India. Ma una cosa è
analizzare la situazione di oggi dicendo che c’è
una crisi della nonviolenza, magari a causa
della riduzione di persone e movimenti che
scelgono di percorrere la strada della
nonviolenza. Con questa analisi, che pure ha
qualche fondamento, non sono completamente
d’accordo. Tutt'altra cosa è sostenere che la
nonviolenza ha fallito nel senso che non ha
sbocchi, e che dunque bisogna ritornare pur
sempre alla lotta armata: ma se fosse così,
allora sì che il militarismo e il capitalismo
avrebbero vinto, sarebbero riusciti a imporre i
loro stessi metodi violenti di lotta. Se in
certi contesti la nonviolenza è in crisi, allora
direi che è necessario andare a veder bene
situazione per situazione, senza soffermarsi
unicamente sulle situazioni di fallimento
generalizzando il giudizio sulla teoria e la
prassi nonviolente a partire unicamente da esse.
Inoltre, opporsi alla violenza oppressiva con la
violenza rischia di essere controproducente,
proprio per chi si vuole liberare dalla
violenza. In Colombia sono quarant'anni che la
FARC e altri movimenti lottano con metodi
violenti, ma le cose in Colombia non vanno oggi
meglio - e se vanno meglio è perchèanche in
Colombia sta sorgendo un movimento nonviolento
dal basso. Nell'attuale fase del conflitto
israelo-palestinese le cose non vanno meglio,
andavano molto meglio nel periodo della prima
Intifada, dove prevaleva la scelta di lotta non
armata, che è stato il momento in cui si sono
aperte possibilità di dialogo e di politiche
costruttivo sia per gli israeliani che per i
palestinesi.
Ma al di là delle singole situazioni, nelle
quali magari il ricorso alla violenza potrebbe
essere comprensibile come estrema ratio anche
alla luce della riflessione di Gandhi, possiamo
dire che in generale il progetto nonviolento ha
fallito? La nonviolenza può costituire ancora
oggi un orizzonte politico per uscire dalla
situazione di barbarie nella quale siamo
immersi?
Dobbiamo essere chiari: la via della violenza è
la via della sua escalation che finisce in un
vicolo cieco. Se continuiamo su quella strada
arriviamo a distruggere l’umanità. Questo è il
punto di partenza - la grande novità della
storia umana esplosa nel 1945. Quindi possiamo
dire che in realtà non ci sono scelte, perché la
violenza - nell'era delle armi di distruzione di
massa - è una scelta totalmente catastrofica. E
allora secondo me siamo costretti, non per
virtù, ma per necessità, a imboccare altre
strade. O imbocchiamo una strada diversa dalla
violenza, per noi, i nostri figli, i nostri
nipoti, oppure, se non siamo in grado di fare
una scelta nonviolenta, vuol dire che l’umanità
non aveva e non ha ragione di esistere. Perché
sceglie l’autodistruzione.
Certo, la scelta nonviolenta deve fare i conti
con problemi enormi. Ma non dobbiamo dimenticare
che anche la scelta violenta comporta enormi
problemi. La via della violenza - che da ultimo
è la via della guerra - investe somme
astronomiche, richiede grandi capacità
organizzative, e si serve di stuoli di
scienziati. Bene, lo stesso vale per la via
della nonviolenza: ci vogliono volontà politica,
preparazione, organizzazione, mobilitazione dal
basso, risorse, denaro, e ricerca scientifica.
Oggi spesso in politica si giustifica l’uso dei
mezzi violenti per raggiungere fini che si
considerano buoni, presentando questa scelta
come una drammatica ma inevitabile necessità.
Come valutare questa lettura della
responsabilità politica alla luce della
nonviolenza di Gandhi?
Credo che il problema vada avvicinato con
un’impostazione non moralistica, ma empirica.
C’è un nesso profondo, empirico appunto, fra
mezzi e fini: dati determinati fini, solo certi
mezzi, che già prefigurano quei fini, ci danno
garanzia di non allontanarci da quei fini. È
diversa invece l’impostazione del problema
quando si dice che, dato un fine buono, l’uso i
certi mezzi malvagi giudicati necessari per
raggiungerlo può essere giustificato: questo
discorso presuppone che il fine buono possa
essere raggiunto con mezzi malvagi, cosa che,
appunto, l’impostazione empirica della relazione
fra mezzi e fini nega.
Oggi però mi sembra che il problema non venga
affrontato sul piano empirico: solitamente si
ripresenta la contrapposizione fra etica della
convinzione e etica della responsabilità,
collocando la nonviolenza al livello dell’etica
della convinzione e il ricorso alla violenza
come male necessario all’interno di un’etica
della responsabilità. L’approccio empirico
supera la divisione fra etica della convinzione
e della responsabilità di stampo weberiano?
Credo di sì! Perché quella impostazione
presuppone che in certe condizioni determinati
mezzi, implicitamente malvagi, possano servire a
raggiungere fini considerati buoni. Ma la
coerenza tra fini e mezzi è essenziale. Nel
nazismo c’è una coerenza terribile da questo
punto di vista: dato il fine violento l’unico
mezzo per realizzarlo non può che essere la
violenza. Vale esattamente il contrario, ma con
la stessa coerenza, per la nonviolenza: se si
mira realizzare una società liberata il più
possibile dalla violenza è necessario, non
moralmente, ma empiricamente, ricorrere a mezzi
nonviolenti.
Questo discorso vale anche per la democrazia,
che è sino ad oggi il tipo di sistema politico
pìù vicino alla nonviolenza: un sistema in cui i
conflitti vengono condotti e risolti contando le
teste, non tagliandole: lo stato democratico non
può che essere mantenuto con mezzi democratici -
questo è un truismo, ma va ricordato. Anche
perchè quando le democrazie cominciano a essere
esportate con mezzi non democratici, con i
bombardamenti, forze armate mercenarie e in
parte privatizzate, e le torture, questi mezzi
si ripercuotono all'interno della società
democratica, la corrodono, la militarizzano, la
rendono più violenta, anche strutturalmente - un
processo che è oggi in parte in atto nella
società statunitense.
Lei ha spesso richiamato l’importanza del
fallibilismo etico. Ma noi siamo in un contesto
nel quale sta accadendo esattamente il
contrario, con l’accentuazione di posizioni
sempre più dogmatiche o addirittura
fondamentaliste. Ha un futuro per l’affermazione
della nonviolenza il fallibilismo?
Il fallibilismo - inteso come atteggiamento di
costante ricerca della verità nella convinzione
che nessuno detiene il monopolio di essa - è
appunto il contrario del dogmatismo che nutre i
movimenti fondamentalisti, sia quelli religiosi
sia quelli laici. Sulle possibilità di tener
vivo un atteggiamento fallibilista a volte sono
piuttosto pessimista. Anche perché a livello
politico dovrebbero essere in primo luogo le
società democratiche a tener vivo e incoraggiare
tale atteggiamento, dando spazio a più voci,
alla ricerca comune (quella che Aldo Capitini
chimava la "ricerca corale") attraverso il
dialogo informato tra persone autonome e civili.
Ma le nostre democrazie si stanno indebolendo
perchè al posto del dialogo subentra la rissa
verbale e tanti media - e in primo luogo la TV -
stanno letteralmente indottrinando le coscienze,
e questa è violenza culturale. In questo senso
il fallibilismo mi sembra in crisi e il rischio
è che aumenti la violenza, perché dogmatismo e
violenza sono fortemente legati l’uno all’altra.
Da una parte quindi ho delle preoccupazioni e
forse sono anche un po’ pessimista; dall'altra,
ritengo però anche che sia pericoloso
abbandonarsi al pessimismo, e quindi cerco di
vedere segni di speranza, e colgo questi segni
in tutte quelle manifestazioni positive di
quella "forza costruttiva" con la quale gli
umani nella storia sono riusciti a fare grandi
progressi - nonostante la violenza.
Insomma credo che in questa prospettiva sia
importante essere intelligentemente, lucidamente
ottimisti, ma con i piedi molto, molto per
terra. Era anche l'ottimismo intelligente che
sosteneva Gandhi nel suo continuo e ininterrotto
impegno nella nonviolenza politica.
di
Alberto Conci
Fonte: Mosaico di Pace
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