Tommy Lee Jones si procura una piccola ferita al
collo mentre si sta facendo la barba. Blocca
l’uscita del sangue con un pezzo minuscolo di
carta igienica. La scena è quotidiana, inutile.
Ma lì fuori, appena fuori dalla porta, ci sono
degli ufficiali dell’esercito incaricati di
dirgli una cosa che lui ha già capito: hanno
trovato il cadavere di suo figlio. Tommy Lee
Jones tergiversa, si guarda allo specchio. E’ un
momento di pausa straordinario, e una grande
prova d’attore.
In “Nella valle di Elah”, Tommy Lee Jones
interpreta la parte di un padre, ex militare,
che si mette a investigare sulla morte del
figlio, rientrato in patria dall’Iraq, subito
ucciso. E’ un uomo che crede nell’America e
nella sua bandiera. Attraverso la tragedia che
gli tocca vivere, si rende conto però di come
l’America stia accumulando, una dopo l’altra, da
decenni, generazioni di reduci. Uomini che vanno
in cerca ciascuno della propria guerra e se la
trascinano dietro per tutta l’esistenza.
I nonni in Europa, i padri in Vietnam, i
fratelli maggiori in Medio Oriente, e ora i
figli, di nuovo, in Iraq. La guerra fa male a
chi la subisce ma anche a chi la conduce: le
conseguenze psicologiche della partecipazione a
un conflitto incancreniscono il tessuto di una
nazione. L’impressione è che anche i figli dei
figli troveranno una loro guerra, da qualche
parte. Ma l’essere reduci non sa, non può
diventare uno status normale, una condizione
ereditabile di padre in figlio. Nemmeno se si
pensa all’intervento americano nel mondo da
patrioti, con lo spirito di chi ritiene di
abitare la nazione eletta.
E’ questo il punto di vista con cui inizialmente
legge la realtà Tommy Lee Jones. E’ orgoglioso,
convinto, sicuro. Ma quando entra nel passato di
suo figlio per ricostruire la guerra che ha
concretamente combattuto, l’immagine della
nazione che il padre si era costruito si
trasforma, collassa. Non ha senso sventolare
bandiere per ribadire una superiorità politica
o, peggio, morale, che nei fatti non c’è: per
verificarlo, basta fermarsi a guardare, cercare
immagini e parole come fa Tommy Lee Jones
scorrendo i video del cellulare di suo figlio.
La bandiera americana, nel finale di “Nella
valle di Elah”, è costretta a sventolare
rovesciata, a invocare aiuto, ad ammettere una
rotta. Il cinema americano recente fa un uso
abbondante del simbolo della bandiera, sia
quando ritiene di doverla esibire – come in
tanti film d’azione – sia quando pensa che quel
simbolo abbia addosso una nuova debolezza, una
sporcizia di cui non si può andare fieri. Clint
Eastwood – un’altra persona che crede
nell’America, nella sua forza – ha ragionato
sulle stelle e strisce in “Flags of our fathers”
Quasi in conseguenza diretta di questa
riflessione, ha realizzato un altro film,
“Lettere da Iwo Jima”, che vede la stessa
battaglia dal punto di vista dei giapponesi.
Dentro ad altre trincee. Sotto un’altra
bandiera.
E’ il controcampo che manca nel giornalismo di
guerra che ci viene mostrato dai telegiornali,
trionfo esclusivo – così si esprime Jean-Luc
Godard nelle sue “Histoire(s) du cinéma” – della
televisione americana e delle sue groupies.
Vediamo solo una parte, il nostro campo. E’ come
vedere in televisione una partita di tennis con
la telecamera che inquadra solo metà del campo.
Assurdo, e in più, se si guarda una guerra,
doloroso. Il miglior cinema, il miglior cinema
americano, è capace di mostrarci il controcampo,
non attraverso la cronaca ma con gli strumenti
della narrazione. Il controcampo può essere, in
Clint Eastwood, il punto di vista del nemico.
Oppure, in Paul Haggis, lo sguardo nuovo di un
cittadino che vuole realmente conoscere.
Il titolo del film allude alla piana di Elah,
alla battaglia tra Davide e Golia. Tommy Lee
Jones racconta l’episodio biblico a un bambino,
per farlo addormentare. E’ il figlio della
poliziotta che investiga sull’omicidio. Il
bambino ascolta la storia, rimane perplesso. Si
identifica con Davide. Non con la sua vittoria:
con il suo essere ragazzino. Chiede agli adulti,
il mattino dopo: “Perché l’hanno lasciato
combattere? Era solo un ragazzo…”. Prende così
la parola anche a nome del figlio morto di Tommy
Lee Jones. Davide, che va alla guerra, che torna
vincitore, che poi diventa grande re… Eppure,
dice il figlio della poliziotta, non doveva
scendere nella valle di Elah; non doveva andare
lui con la sua fionda allo scontro con Golia.
Paul Haggis, come nel precedente “Crash –
Contatto fisico”, costruisce un affresco
complesso. Sa parlare per metafore, ma non
lascia facili appigli all’allegoria: alla fine,
gli Stati Uniti sono sia il gigante sconfitto
sia il ragazzino la cui vittoria non nasconde il
fatto che egli venga colpevolmente mandato alla
guerra.
Fonte:
http://www.controcopertina.it/2008/03/16/nella-valle-di-elah/
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